Riflessioni sull’Esortazione Apostolica “Laudate Deum” di Papa Francesco sulla crisi climatica
È stata resa pubblica il 4 ottobre scorso nella festa di San Francesco l’Esortazione Apostolica “Laudate Deum”, che si pone in continuità con l’Enciclica “Laudato Si’ sulla cura della casa comune pubblicata nel 2015. La Laudate Deum tratta una questione tanto complessa quanto specifica e specialistica – la crisi climatica -, che sta causando un “deterioramento globale dell’ambiente”. Poiché tale questione sta a cuore a tutti noi, “il clima è un bene comune, di tutti e per tutti” (23), e “la terra è essenzialmente una eredità comune, i cui frutti devono andare a beneficio di tutti” (93), l’Esortazione Apostolica è indirizzata “a tutte le persone di buona volontà”.
Con un tono e un linguaggio che non nascondono – anzi esplicitano in maniera drammatica – la gravità della crisi, Papa Francesco condivide ancora una volta dopo la Laudato Si’ le sue “accorate preoccupazioni” con “sorelle e fratelli del nostro pianeta sofferente” – la nostra “casa comune” -, paventando presto un “punto di rottura” (2) e illustrando alcuni degli effetti del cambiamento climatico che già si stanno facendo sentire su tutta l’umanità, particolarmente sulle “persone più vulnerabili” (3). Tra essi – come evidenziano agenzie e istituzioni internazionali specializzate – eventi metereologici estremi quali inondazioni, siccità, carestie, incendi, riscaldamento degli oceani; la perdita della biodiversità e il degrado delle risorse naturali, tra cui terra e acqua (che costituiscono la principale fonte di sostentamento nei Paesi poveri e in Via di Sviluppo, che dipendono ancora in gran parte dall’agricoltura), con conseguente aumento di conflitti per l’accesso (anche questo spesso limitato) a tali risorse; cattivi raccolti, che aumentano fame e povertà; migrazioni forzate, soprattutto dai “piccoli Stati insulari in via di sviluppo”, molti dei quali rischiano nei prossimi decenni di essere sommersi a causa dell’innalzamento del livello del mare dovuto allo scioglimento dei ghiacci; aumento degli sfollati interni, tra cui anche minori.
Una questione, quella del cambiamento climatico, che per il Santo Padre non è “meramente” di natura ecologico-ambientale – come i “non specialisti” potrebbero essere indotti a pensare – ma strettamente legata “alla dignità della vita umana” (3).
Il cambiamento climatico ha infatti un’origine, una portata e implicazioni più ampie, di natura sociale e morale, con ulteriori implicazioni economiche, distributive e politiche, che costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità. Ammonisce il Santo Padre che “cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale” (57). E ancora: “Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale” (57); il cambiamento climatico va trattato invece come “un problema umano e sociale in senso ampio e a vari livelli (58). Solo affrontandolo con tale consapevolezza e prospettiva più ampie – che vanno ben al di là dell’ausilio esclusivo della “fisica” e della “biologia” nonché del “paradigma tecnocratico” – è possibile trovare risposte efficaci e adeguate, sulla strada di “uno sviluppo sostenibile e integrale” per “proteggere” e – aggiungiamo noi – salvare la “nostra casa comune”.
Riconoscere le “dimensioni sociali del cambiamento climatico”, significa riconoscere che si tratta di “più di una crisi ambientale” ed è invece una “crisi sociale”*, strettamente connessa con le diseguaglianze globali e a più livelli, cioè “tra Paesi ricchi e Paesi poveri; tra ricchi e poveri all’interno dei Paesi; tra uomini e donne e tra generazioni”*. È proprio a causa di tali diseguaglianze che “i più poveri e vulnerabili portano il peso maggiore” degli effetti del cambiamento climatico, anche se “contribuiscono in maniera minore”*. Essi subiscono anche in maniera maggiore l’impatto relativo alle misure adottate per affrontare i cambiamenti climatici, soprattutto in assenza di politiche inclusive o quando gli approcci adottati non sono formulati in collaborazione con i beneficiari e le comunità interessate*. Per aumentare la resilienza al cambiamento climatico, un aspetto importante consiste nel riconoscere il valore e cercare sinergie tra conoscenze “scientifiche”, “indigene” e “locali” (*World Bank*; **Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC).
Tra i gruppi sociali più vulnerabili ed esposti al cambiamento climatico, su cui l’Esortazione si sofferma, vi sono i migranti, “che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale […]”. Ma anche le donne, che a causa di sistematiche diseguaglianze, sono più vulnerabili agli shock esterni. Soprattutto nei Paesi in via di Sviluppo (PVS), le donne – rispetto agli uomini – hanno un minore accesso a risorse naturali (in primo luogo la terra), input agricoli, informazione, formazione, tecnologie, capitale finanziario e mercati. Generalmente non hanno voce nei processi decisionali a livello della famiglia e della comunità e hanno un carico di lavoro estremamente pesante, in casa e sui campi, che incide non solo sulla loro salute e benessere, ma anche sulle opportunità di formazione e di impiego. Dati recenti delle Nazioni Unite mostrano che un numero maggiore di donne rispetto agli uomini soffre la povertà e la fame. Le famiglie monoparentali con a capo le donne sono tra i gruppi più vulnerabili.
Anche i contadini e i produttori su piccola scala che vivono nei PVS sono duramente colpiti dal clima che cambia. Si tratta di coloro che producono la maggior parte del cibo che si consuma in Asia e in Africa Sub-Sahariana, usando appezzamenti di terra sotto i due ettari. Sono tra i più colpiti dipendendo in massima parte dall’agricoltura e attività correlate, ma sono tra coloro che vi hanno contribuito di meno.
Infine, le popolazioni indigene, a causa del loro stretto legame e dalla dipendenza dall’ambiente naturale. Il cambiamento climatico peggiora la loro già difficile condizione, in particolare aumentando “esclusione politica ed economica, perdita di terra e risorse naturali, violazioni dei diritti umani, discriminazioni e disoccupazione”***.
A fronte dei dubbi suscitati da alcuni, anche nella Chiesa Cattolica, e in linea con la maggioranza degli esperti del clima e degli scienziati, l’Esortazione Apostolica sostiene l’origine umana del cambiamento climatico, che “non può più essere messa in dubbio” (11). Dal 1800 sono infatti le attività umane il principale motore del cambiamento climatico e del riscaldamento globale del pianeta, in particolare a causa dell’uso dei combustibili fossili quali carbone, petrolio e gas****, come recentemente reiterato anche dall’Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC. L’Esortazione è quindi un appello a tutti noi affinché – ciascuno secondo le proprie possibilità e responsabilità – inverta la rotta, considerando che i cambiamenti del clima non solo sono “diffusi, rapidi e in aumento” (Nazioni Unite e IPCC), ma alcuni di essi sono “irreversibili” (15), quali l’innalzamento del livello dei mari, il riscaldamento degli oceani e lo scioglimento dei ghiacci. I nostri comportamenti e le nostre scelte individuali ma anche le decisioni politiche sono quindi la via più efficace e soprattutto possibile per uscire da questo cammino che può essere senza ritorno.
Sul piano della cooperazione multilaterale, l’Esortazione nota una “debolezza della politica internazionale” (34-36), incoraggia “gli accordi multilaterali tra gli Stati” (34) e auspica un abbandono del “vecchio multilateralismo”, per “riconfigurarlo e ricrearlo alla luce della nuova situazione globale” (37). Non entra nello specifico su alcune questioni chiave alla base delle necessità di rilanciare un multilateralismo genuino e di riformare alcune istituzioni e processi multilaterali, quali la mancanza di una reale volontà politica a prendere in mano la situazione e ad affrontare oltre parole, una volta per tutte, questioni su cui si dibatte da decenni; le difficoltà di esercitare una leadership etica forte e condivisa; l’eccessiva burocratizzazione; la duplicazione di alcune iniziative e la scarsa cooperazione che possono generare inefficienze e spreco di risorse; un rigurgito di nazionalismo, che va nella via opposta a una genuina cooperazione tra gli stati e a una ricerca di convergenze e sinergie per un bene più alto e privo di interessi di parte, soprattutto in favore dei Paesi più poveri e svantaggiati.
Concludiamo questa semplice riflessione con delle domande, che forse possiamo trovare in filigrana nel testo dell’Esortazione: che mondo vogliamo trasmettere a chi verrà dopo di noi? Ma anche – considerando che gli effetti del clima si stanno già facendo sentire – in che mondo vogliamo vivere i nostri anni? Come vivere una globalizzazione che non sia quella della indifferenza? Come la mia esperienza particolare può contribuire al bene di tutti? Come cristiani, cosa possiamo fare – sul piano individuale e collettivo – e se abbiamo responsabilità sociali, istituzionali e politiche? Come far dialogare e collaborare scienza e fede, tecnica e fede, fede e politica, per un interesse super partes e per il bene comune?
In un’emergenza pressante come quella del cambiamento climatico che minaccia il Creato che ci è stato dato in dono e in eredità, siamo chiamati ad agire con urgenza, senza se e senza ma, senza ambiguità e andando oltre alle dichiarazioni d’intento e alle analisi che ormai sono chiare e approfondite. Bisogna – come cristiani in particolare – essere testimoni credibili e portatori della speranza “che non delude” (Rm 5,1).
* https://www.worldbank.org/en/topic/social-dimensions-of-climate-change;
** https://www.ipcc.ch/report/ar6/wg2/downloads/report/IPCC_AR6_WGII_SummaryForPolicymakers.pdf
*** https://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/backgrounder%20climate%20change_FINAL.pdf
**** https://www.un.org/en/climatechange/what-is-climate-change#:~:text=But%20since%20the%201800s%2C%20human,sun%27s%20heat%20and%20raising%20temperatures; https://www.un.org/en/climatechange/science/mythbusters