"C'è un solo modo di vedere le cose finché qualcuno non ci mostra come guardare con altri occhi" – "There is only one way to see things, until someone shows us how to look at them with different eyes" (Picasso) – "人观察事物的方式只有一种,除非有人让我们学会怎样以不同的眼光看世界" (毕加索)
Gesù è in cammino verso Gerusalemme e all’ingresso di un villaggio, i Samaritani non vogliono ricevere i discepoli di Gesù i quali chiedono il permesso di far scendere il fuoco per distruggerli. Sappiamo tutti molto bene che nella storia a volte abbiamo fatto così. Abbiamo fatto scendere il fuoco sulle città, abbiamo sterminato razze intere per “amore” di Cristo. Quando la religione è presa a pretesto, e diventa strumento di divisione e di odio, si arriva a legittimare gli stermini, come in questi giorni ricordiamo durante la visita di papa Francesco in Armenia, o come la cronaca quasi quotidiana ci fa vedere a proposito del fondamentalismo religioso che strumentalizza Dio e la fede dei piccoli. Non è da meno purtroppo un certo integralismo laicista, che vorrebbe l’uomo onnipotente e lo riduce così schiavo di se stesso e del proprio egoismo. Il vangelo oggi ci propone anche una chiave di lettura per capire come siano possibili alcune derive integraliste nel corso della storia. Gesù si trova accanto un uomo pieno di entusiasmo che lo vuole seguire. Gesù però ha intuito qualche cosa di non sincero e dice: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo»( Lc 9,58).
Gesù severamente ci richiama a riflettere su quel legame che noi spesso preferiamo sorvolare,cioè il rapporto tra la vita cristiana e l’economia. Per essere liberi e cristiani dobbiamo stare molto attenti ai rapporti economici, nei quali siamo immersi; facilmente il denaro sporco, entra anche nei nostri spazi sacri, la nostra coscienza e le nostre chiese, e spesso bassi interessi hanno la meglio sulla nostra testimonianza cristiana e sulla nostra libertà. Quando Francesco d’Assisi volle vivere il vangelo cominciò col buttare tutti i soldi ai piedi di suo padre: ruppe un rapporto. Non si può servire a due padroni, al vangelo e a mammona. Denaro sporco, potere carriera; dobbiamo stare tutti molto attenti, come singoli credenti e come comunità cristiana. Il metodo che ci suggerisce Gesù per annunciare il vangelo, liberi da ogni integralismo e da ogni dipendenza economica è quello di “mettersi in cammino verso Gerusalemme”. “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui elevato sarebbe stato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme”. Letteralmente l’evangelista scrive:” Indurì il suo volto verso Gerusalemme” (Lc 9, 51). Gerusalemme non è solo una città. Essa è un simbolo della coerenza della nostra vocazione. E’ necessario che ciascuno di noi salga a Gerusalemme, la città che uccide i profeti per conoscere la dimensione della propria fede.
Essere cristiani significa avere incontrato Gesù di Nazareth, averne accolto il messaggio e avere scelto la Sua drammatica e magnifica proposta di vita, pronti a pagare un prezzo alto se necessario. Solo il Dio di Gesù Cristo ci insegna ad amare senza confini, senza limiti, senza integralismi e sempre gratuitamente.
Papa Francesco andrà venerdì 24 giugno in Armenia per tre giorni e a fine settembre sarà pellegrino in Georgia e Azerbaigian, visitando così tutta la regione del Caucaso. Sabato il Papa incontrerà alcuni discendenti di sopravvissuti al «Metz Yeghern», il cosiddetto “sradicamento sanguinoso” quando gli armeni furono vittime della persecuzione dell’impero ottomano nel 1915; il termine che si usa per ricordare questa tragedia che ha coinvolto un milione e mezzo di persone è anche «genocidio» una parola contestata dalla Turchia.
Il portavoce del papa Padre Lombardi durante il briefing di presentazione del pellegrinaggio ha ricordato la cerimonia presieduta a San Pietro da papa Francesco il 12 aprile 2015 nel centenario del «Metz Yeghern». Papa Francesco, citò in quella occasione la dichiarazione comune firmata a Etchmiadzin nel 2001 da Giovanni Paolo II e Karekin II, e parlò del «primo genocidio del XX secolo», usando appunto il termine, «genocidio». La Turchia,(paese che il papa ha già visitato nel 2014) richiamò per diversi mesi ad Ankara il proprio ambasciatore presso la Santa Sede.
Padre Lombardi, a proposito della differenza tra il termine «Metz Yeghern» e «genocidio», ha così risposto ad una domanda:«Rispondo con quello che mi ha detto un mio amico armeno, che la parola Metz Yeghern è anche più forte di quello che dice la parola genocidio, e io preferisco usare questa parola proprio per non essere intrappolato dalle domande che non fanno che ruotare attorno all’uso di una parola. Nessuno di noi nega che ci siano stati massacri orribili, lo sappiamo molto bene e lo riconosciamo, e andiamo al memoriale per ricordarlo, ma non vogliamo fare di questo una trappola di discussione politico-sociologico perché andiamo alla sostanza».
La sostanza è che papa Francesco visitando le tre regioni del Caucaso si fa pellegrino di pace e di riconciliazione, percorrendo anche un cammino ecumenico , particolarmente importante in questi giorni nei quali a Creta si sta svolgendo un concilio ortodosso.
Tra i motivi del viaggio ha ricordato ancora padre Lombardi, ci sono la restituzione della visita che il Catholicos armeno Karekin II, patriarca della chiesa apostolica armena, ha fatto al Papa, incoraggiare la locale comunità cattolica, e manifestare a tutto il popolo armeno il sostegno e l’amicizia del papa. La Chiesa Armena è una Chiesa indipendente sia dalla Chiesa Cattolica che da quella Ortodossa-
Il cristianesimo in Armenia risale al I secolo, quando secondo la tradizione venne introdotto da Bartolomeo e Taddeo, due degli apostoli. L’Armenia fu la prima nazione ad elevare il Cristianesimo a religione di Stato. Il Re Arsacide Tiridate III, venne convertito e battezzato con la sua corte da Gregorio Illuminatore nel 301. Il Cristianesimo in Armenia ebbe poi un rapido sviluppo anche grazie alla traduzione in lingua armena della Bibbia dal parte del teologo e monaco Mesrop Mashtots.
Il video messaggio che papa Francesco ha inviato al popolo armeno pochi giorni fa in preparazione del pellegrinaggio è il miglior viatico per i giorni che verranno:”Con l’aiuto di Dio vengo tra voi per compiere, come dice il motto del viaggio, una “visita al primo paese cristiano”. Vengo come pellegrino, in questo Anno Giubilare, per attingere alla sapienza antica del vostro popolo e abbeverarmi alle sorgenti della vostra fede, rocciosa come le vostre famose croci scolpite nella pietra.[…] La vostra storia e le vicende del vostro amato popolo suscitano in me ammirazione e dolore: ammirazione, perché avete trovato nella croce di Gesù e nel vostro ingegno la forza di rialzarvi sempre, anche da sofferenze che sono tra le più terribili che l’umanità ricordi; dolore, per le tragedie che i vostri padri hanno vissuto nella loro carne. Ai ricordi dolorosi non permettiamo di impadronirsi del nostro cuore; “
Prima di tornare a Roma il Papa pregherà nel monastero di Khor Virap, luogo del pozzo in cui, secondo la tradizione, fu in prigione per dodici anni Gregorio l’Illuminatore, fondatore del cristianesimo in Armenia. Il papa libererà delle colombe in direzione del monte Ararat e come sottolinea ancora Padre Lombardi si troverà «vicinissimo al confine con la Turchia» e liberare le colombe «in direzione del monte Ararat» è «un messaggio che ha significato».
Riflessioni sulla Esortazione Amoris Laetitia di papa Francesco
Amoris Laetitia è un grande dono alla Chiesa che Papa Francesco ha dato nella Solennità di San Giuseppe il 19 Marzo scorso. Al cuore del documento c’è il desiderio del papa di :”arrecare coraggio, stimolo e aiuto alle famiglie nel loro impegno e nelle loro difficoltà”(AL 4).Non possiamo dimenticare inoltre, che siamo nel pieno dell’Anno Santo della Misericordia, e tutti siamo chiamati in modo particolare ad essere segno e strumento della Grazia. Nella vita cristiana ciò che sta al centro, non è la debolezza dell’uomo, o la sua incapacità a compiere perfettamente la sua missione, e nemmeno il passato con il suo carico di bene e di male compiuto, ciò che conta è la confessione di fede, il professare come fa Pietro di fronte a Gesù: tu sei il Cristo il figlio del Dio vivente. Appena lo facciamo, cioè diciamo con convinzione a Gesù tu sei il Cristo, il Salvatore, scopriamo, come Pietro, la grandezza del progetto che Dio ha con ciascuno di noi.
Chi è abituato a rapportarsi alle situazioni, agli avvenimenti, alle persone,in base a un codice, in base a una legge, non può comprendere il volto di un Dio che è amore. Il criterio di interpretazione della Scrittura,della Parola di Dio, deve essere il bene dell’uomo. Chi invece ne fa una dottrina, una legge, nella quale l’osservanza di precetti, è più importante del bene dell’uomo, ebbene queste persone rischiano di avere come un velo davanti agli occhi che impedisce loro di scoprire il disegno d’amore di Dio sull’umanità. Così come nella Evangelii gaudium (EG), già dal titolo si parla di letizia, di serenità di gioia. Per il papa la gioia è una dimensione spirituale ed è un elemento fondamentale:« La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (EG 1).Sappiamo bene che la gioia è un aspetto biblico molto importante del Natale, ed è una nota costante dei cosiddetti vangeli dell’infanzia:”Vi annuncio una grande gioia che sarà di tutto il popolo”(Lc2,10). Inoltre la gioia è anche lo scopo della Chiesa in comunione come ci ricorda l’evangelista Giovanni:”questo vi ho detto,perché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena”(Gv15,11). In questa dimensione di gioia biblicamente fondata e irrobustita da uno sguardo di fede sul mondo, il papa riprendendo il lavoro di ben due Sinodi,uno straordinario e uno ordinario, analizza la realtà vera, senza paura di chiamare le cose con il loro vero nome, parlando della vita concreta delle persone e delle famiglie. In questo realismo tutto evangelico, papa Francesco attinge anche alla storia che ci circonda, citando personaggi che la storia l’hanno fatta con la loro testimonianza come Martin Luther King, Erich Fromm e Dietrich Bonhoeffer. Nella storia dei popoli, delle famiglie e dei singoli, è necessario e urgente un servizio pastorale che vuole sostenere la crescita dell’amore:«Tutto questo si realizza in un cammino di permanente crescita. Questa forma così particolare di amore che è il matrimonio, è chiamata ad una costante maturazione, perché ad essa bisogna sempre applicare quello che san Tommaso d’Aquino diceva della carità: “La carità, in ragione della sua natura, non ha un limite di aumento, essendo essa una partecipazione dell’infinita carità, che è lo Spirito Santo.» (AL 134). Dobbiamo dice ancora il papa: «smettere di pretendere dalle relazioni interpersonali una perfezione, una purezza di intenzioni e una coerenza che potremo trovare solo nel Regno definitivo» (AL 325).
Sempre a proposito della storicità e del concetto di maturazione il Papa afferma che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» (AL 3). « in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato”» (AL 3). Un fondamento di inculturazione quindi come chiave di lettura importante di questa esortazione papale.
I nove capitoli di cui è composta l’esortazione apostolica, iniziano con il primo capitolo, “alla luce della Parola” che offre subito il quadro di riferimento nella Parola di Dio. La Parola di Dio è :”popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari» (AL 8)9, e quindi non si tratta di svolgere un lavoro astratto e teorico, ma realizzare un «compito artigianale» (AL 16).Vedremo quindi nel secondo capitolo una accurata descrizione della “realtà e le sfide delle famiglie”; Il papa invita subito con decisione a tenere:«i piedi per terra» (AL 6) riflettendo sul dramma delle famiglie migranti, sul problema delle ideologie di genere, la cura delle persone disabili, la violenza contro le donne, e altre tematiche reali e urgenti.
Nel terzo capitolo il papa vuole aiutare le problematiche descritte prima, con il soccorso dell’insegnamento della Chiesa riguardo il matrimonio e la famiglia, ma con una premessa fondamentale e irrinunciabile: “che si metta tutta la dottrina del matrimonio e della famiglia sotto la luce del kerygma. Davanti alle famiglie e in mezzo ad esse deve sempre nuovamente risuonare il primo annuncio, ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario”» (AL 58). La motivazione di questa premessa è che:“tutta la formazione cristiana è prima di tutto l’approfondimento del kerygma” (AL 58). Questo ancoraggio dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e la famiglia,nel Kerigma libera da ogni pericolo di fondamentalismo e dalla durezza di cuore di quelli che invece fondano la loro riflessione solamente sul diritto e sui precetti degli uomini.
Il quarto capitolo descrivendo l’inno alla carità di 1 Cor 13,4-7, parla dell’amore nel matrimonio con accenti lirici, accompagnati da una vera e propria lectio divina,rimanendo però sempre ancorati ad un sano realismo:”Non si deve gettare sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il matrimonio come segno implica “un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio”» (AL 122). Il quinto capitolo riflette sulla fecondità ampliando lo sguardo anche alla realtà complessa famiglia dove ci sono anche i parenti e gli amici.
Il sesto e il settimo capitolo riflettono sui modi pastorali per la costruzione di famiglie secondo il cuore di Cristo,e sulla educazione dei figli, sempre attenti però alle situazioni concrete e locali:”Saranno le diverse comunità a dover elaborare proposte più pratiche ed efficaci, che tengano conto sia degli insegnamenti della Chiesa sia dei bisogni e delle sfide locali” (AL 199).
Papa Francesco ha la consapevolezza che l’ottavo capitolo che tratta delle varie fragilità è un capitolo chiave, e per questo ricorda subito all’inizio che: «spesso il lavoro della Chiesa assomiglia a quello di un ospedale da campo» (AL 291). Il Papa assumendo la bellezza e la ricchezza del matrimonio cristiano dice con chiarezza che: «altre forme di unione contraddicono radicalmente questo ideale, mentre alcune lo realizzano almeno in modo parziale e analogo» (AL 292).Proprio per questo la Chiesa:”non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio” (AL 292). Accompagnare, Discernere, Integrare sono le tre parole che caratterizzano non solo questo capitolo, ma l’intero documento, anzi il pontificato stesso di Francesco,nella logica della Misericordia pastorale che altro non è se non il cuore stesso di Dio.
L’ultimo capitolo, il nono descrive la spiritualità nella famiglia, «fatta di migliaia di gesti reali e concreti» (AL 315). “Coloro che hanno desideri spirituali profondi non devono sentire che la famiglia li allontana dalla crescita nella vita dello Spirito, ma che è un percorso che il Signore utilizza per portarli ai vertici dell’unione mistica» (AL 316). « I momenti di gioia, il riposo o la festa, e anche la sessualità, si sperimentano come una partecipazione alla vita piena della sua Risurrezione” (AL 317) La Pasqua e il culmine e la fonte di ogni spiritualità famigliare.
La Preghiera alla Santa Famiglia,conclude questo testo papale, che più che proporre un ideale di famiglia che non c’è, invita a cercare e trovare la presenza del Padre misericordioso nella realtà ricca e sorprendente, sempre attenti ai segni dei tempi; uno sguardo positivo e gioioso sul tempo, che è per i cristiani un tempo favorevole per essere felici, un Kairos, un dono di Dio, un tempo superiore allo spazio, dove si compie il progetto di Dio sull’uomo. Papa Francesco pensa le cose di Dio e prega a partire dalla realtà che gli sta di fronte. Questa esperienza,affinata nel suo ministero di Pastore di una grande e moderna città come Buenos Aires, è quella stessa di Gesù,di vedere come i piccoli, i bambini, i poveri e i peccatori accoglievano con gioia la buona notizia del regno di Dio, mentre i sapienti e i dotti del gli scribi e i farisei di tutti i tempi, fatto fatica a gioire per la Buona Notizia,forse perché non la sanno riconoscere.
Scrive il papa:”abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario” (AL 36). Ancora Francesco:”per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme» (AL 37). A questo punto papa Francesco riporta in primo piano e valorizza la centralità della coscienza individuale:«stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (AL 37) .
L’Esortazione apostolica del papa in continuità con il Concilio Vaticano secondo e con quello che è già espresso in Evangelii Gaudium, traccia anche un sentiero molto chiaro circa il rapporto con il mondo:”molte volte abbiamo agito con atteggiamento difensivo e sprechiamo le energie pastorali moltiplicando gli attacchi al mondo decadente, con poca capacità propositiva per indicare strade di felicità. Molti non percepiscono che il messaggio della Chiesa sul matrimonio e la famiglia sia stato un chiaro riflesso della predicazione e degli atteggiamenti di Gesù, il quale nel contempo proponeva un ideale esigente e non perdeva mai la vicinanza compassionevole alle persone fragili come la samaritana o la donna adultera» .(AL 38) Papa Francesco con Amoris Laetitia va incontro al bene dell’uomo, e come un Padre autorevole e amoroso alleggerisce i pesi del popolo e si pone davanti ad esso come modello non di legalismo, ma di umiltà e di mitezza. L’autorità nella Chiesa è davvero preziosa quando si prende cura, non quando aumenta la pesantezza del giogo da portare.
Papa Francesco attinge anche con sapienza alla preghiera di Maria e alla umiltà della serva del Signore: “Nel tesoro del cuore di Maria ci sono anche tutti gli avvenimenti di ciascuna delle nostre famiglie che Ella conserva premurosamente”(AL 30)
Pensiamo che una chiave di lettura di questo documento possa essere proprio, l’umiltà, quella di Maria e quella del papa.
Che cos’è l’umiltà?”. Sappiamo che il termine viene dal latino “humus”, cioè quel terreno ricco di sostanze in decomposizione che è particolarmente adatto ad accogliere e a far germogliare il seme. I nostri fallimenti famigliari, i nostri sbagli, perfino i nostri peccati – se riconosciuti: possono diventare quel terreno particolarmente fertile per ricevere il dono di Dio, per sperimentare la misericordia di Dio, per incontrare la sua misericordia, cioè il suo “cuore per i miseri”.
Nel vangelo chiedono a Gesù: “quale segno fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi?”(Gv 6,30) La risposta di Gesù: “Io sono il Pane della vita”. Un solo segno: io nutro. Nutrire è fare una cosa da Dio. Condannare è al contrario affamare le persone nella loro speranza e dignità.
Celebrations for the Jubilee of priests chaired by Pope Francis
Fr. Francesco Pesce
In these two days which see the celebration of the Jubilee of priests, priesthood is at the centre of our prayer. In the Roman canon we read: “You who wanted to accept the gift of Abel the just, the sacrifice of Abraham our Father in faith, the pure and holy oblate of Melchisedek your high priest”.
The Letter to the Hebrews tells us that Jesus is priest according to Melchisedek, not because He belonged to cast. It would be tragic if priesthood belonged to a cast, as sometimes history showed, to the cast of warriors and merchants.
The Book of Genesis gives the description of the encounter between Abraham and Melchisedek. I believe from this meeting on the mountain we can draw several points of reflections on priesthood. Abraham had just come back winner in an epic battle to free his nephew, Lot. Melchisedek welcomes him and offers him bread and wine. Abraham bows to this King. The priest must have authority, be hospitable, be able to share and give. Melchisedek was king of Jerusalem, city of peace. The priest must also be a man of peace. “Christ our piece” will say Saint Paul. Pope Francis has again given new emphasis to a non aggressive Church, fighting against everybody or in a continuing state of defence because it is attacked by the outside world.
Melchisedek then blesses Abraham: “Blessed be Abraham by God, highest creator of heaven and earth”. A priest is the man of blessing and this blessing carries on for all the people and for all the times. Nor sin neither terrorism nor our sins can ever interrupt God’s blessing. It cannot be interrupted yet it reaches each man. Further the Scriptures say: “Blessed be God the Highest who placed in your enemies in your hands”.
Enemies are defeated by our blessings. Even more reason for the priest to be a man of dialogue, of patience, of mediation. With his good, blessing example (but clear and authoritative) scatters the aggressors and dissipates any argument.
Abraham rejects the war treasure: “I will take nothing, not even a string for the shoes”. A priest must be a poor man, in the true sense, living particularly trusting God, a man, a Christian, who hopes against all hopes.
Again a priest must be a pure man who celebrates the Eucharist that was celebrated on the mountain of Abraham and Melchisedek. “Whoever eats of my body and drinks my bloods will have eternal life and I will resurrect him the last day”. A priest man of the Eucharist who proclaims the resurrection, not death.
Lastly, the Letter to the Hebrews says : “He has taken upon himself weakness and because of it he must offer sacrifices for himself and for the whole people”. The priest is a man who enters into the pain of the world. This is the true universality of his ministry: it is our suffering, the world’s suffering.
Let’s come close to the pain of the world as priests who hold bread and wine. God is the bread and God is the wine: we, priests, must be bread and wine for others and we must be “the bread to eat” so that all men can get to Christ our Saviour.
A table without bread is just stone, just as the heart of a priest without mercy.
We are very pleased to post the first contribution to our blog by Fr. Bryan Lobo, a Jesuit from India, who is professor at the Pontifical Gregorian University of Rome. We are very grateful to Fr. Bryan for taking the time to share with us something about the amazing work that the Jesuit Fathers are doing among the poorest and most marginalised people in India. We are full of admiration for the dedication of Fr. Neelam Lopes, S.J., who leads such work, particularly supporting tribal communities to improve their living conditions through socio-economic, educational and health programmes. We do hope that from time to time both Fr. Bryan and Fr. Neelam will continue to inform us about the life and activities of the Church of this great country – India. From our side, we keep Fr. Neelam and the people he helps in our hearts and prayers and we will continue to provide our support to some of his activities.
Fr. Bryan Lobo, S.J
Last year, during my usual annual visit in India during the summer time, I had the joy to celebrate the liturgy with Fr. Neelam Lopes, S.J., Superior of the Missions in Shirpur (North Maharashtra, India). In the photos I am pleased to share I and Fr. Neelam are celebrating Mass in the Indian style for the tribals.
The people of this area belong to the Pawara tribe, a native tribe that is found in the western and central parts of Maharashtra. The Masses are normally celebrated, as seen in the photographs, in one of the halls constructed by the Catholic missionaries. The saffron colored shawls worn by the celebrants is significant to the Indian culture. The color saffron signifies renunciation. Saffron colored clothes are normally used by celibate Hindus (monks and nuns). The language used during the liturgy in these areas is Marathi,which is not the mother tongue of the Pawaras. Marathi is normally the language used during formal functions and in educational institutions. Most of the women seen in the photographs have covered their heads. It is part of the culture of the married Pawara women to cover their heads as a sign of respect.
Fr. Neelam (left) and Fr. Bryan (right) celebrating the Eucharist during the Mass. (c)Bryan Lobo/Francesco Pesce
Fr. Neelam (the first one, wearing a yellow scarf) and Fr. Bryan (sitting close to him wearing an orange scarf ) during the Mass. (c)Bryan Lobo/Francesco Pesce
The Bishop of Kontum diocese, Msgr. Aloisio Nguyễn Hùng Vi, recently came to our parish to celebrate the Confirmation Sacrament for 142 chidren. Ten of them are from our boarding school and seven belong to ethnic minority groups. Their parents came the day before and stayed in our house so that they could attend the Mass because they are living very far away.
The pictures are taken in front of the grotto of the Blessed Mother Mary.
God showers His blessings on the honest and the dishonest alike, He causes rain to pour on both the just and the unjust. However, He has a predilection for lost sheep, the stone cast aside, the prodigal son. This we must never forget, as Christians, who realise that we are ever in need of a new conversion, and as the shepherds of God’s people.
The Lord Jesus bears witness to the fatherhood of God, Who has sent His Son to rebuild a world according to the measurements of love, where even the lost sheep, the stone cast aside, the prodigal son are the object of the Father’s care, attention and mercy. A Father Who wants us all to be saved – as Pope Francis answered to a child in the recent book edited by Father Spadaro, SJ.
The Gospel for this Sunday of Lent recounts the well-known story of the prodigal son. Conversion does not mean becoming prodigal sons: it means overcoming the antithesis between the two sons, between virtue and sin, between those within and those without, and to overcome it by means of a synthesis, which is the work of love, in which those who belong to the world of virtue go beyond themselves, towards the bewilderment of the son who left his father and squandered his possessions. St. Paul explains the situation well in the Second Reading: God has forgiven us by reconciling us with Him. Therefore, God expects us – and we too should expect it of ourselves – to forgive others. St. Paul even speaks of a “ministry” that God has entrusted to each of us.
Why this idea of conversion? Basically for three reasons. The first is that each one of us belongs, at one and the same time, to the world of both the sons ofthe Gospel story. No-oneshould live under the illusion that he or she dwells only in the house of virtue. The second reason lies in the fact of being sons, which is not a merit, but a fact, and we Christians also believe that it is a free gift of God. And we are all sons, by virtue of the gift of His mercy.
The third reason that should prompt us to go out towards the prodigal son, to those who have done wrong, is simply because Jesus did so. It is not a question of (purely formal) obedience to God (often viewed as a master) that makes a Christian, but but our likeness to Jesus, Which our merciful Father sent to save us; the Beatitudes, in fact, and not the Commandments, are specifically Christian.
We must learn to understand and accept those who become lost. And we must bravely search within our “virtues” for their often self-righteous and sectarian characteristics, in order to enter into another measure of human brotherhood, based on reconciliation, like St. Paul, a great sinner who later became the Apostle of the Gentiles, encourages us to do.
It is not sufficient to go and eat with sinners and then return to our homes; it is not enough to use the Gospel as a sort of unusual manual of good manners: this is hypocrisy. We must remove all the obstacles on the path of reconciliation and to transform the Father’s house into everyone’s home, where no one is cast aside.
The prodigal son must convert to virtue, the eldest son to mercy. The Father expects each one of us to undertake the never-ending journey of this double conversion. There can be no feasting, in heaven and on earth, if even only one of our sons and brothers is missing.
We are pleased to publish the afterword of the recent book by the Vatican journalist of Rai 1 Italian television channel Aldo Maria Valli, titled “C’era una volta la confessione” (Once was Confession), published by Ancora. It is a reflection on the Sacrament of Confession at the time of Pope Francis and has also been published in the March 10 edition of L’Osservatore Romano, at page 7 . This is our translation from the original in Italian Language. We remain at disposal for promptly removing this post if it is not appreciated by the right owners.
Fr. Francesco Pesce
I belong to a generation that was educated to fear God, rather than to love him; during seminary, a new sense of duty was required, in the face of which it proved hard to remain free and joyful. I can still see this fear and twisted sense of duty today in many people who approach the Sacrament of Confession. Fear of God, fear of themselves, fear of others and their judgement. Confession as an obligation, not as a desired meeting with our Father, who is always willing to forgive us. I must confess that I was surprised to hear Pope Francis, in preparation for the Jubilee, speak of the «missionaries of mercy». I asked myself: but aren’t priests by definition missionaries of mercy? Isn’t forgiveness a very hallmark, so to speak, of the priest? Then I remembered that I had seen with my own eyes, in some confessionals, the Book of Canon Law, ready for use, like in a law court, and I also remembered the accounts of several penitents, injured by some priests who had been very harsh. And this helped me understand Francis’ idea. My experience as a confessor, in fact, has taught me that the advent of Pope Francis has blown away the old sense of fear and duty, and replaced it with the desire to meet a merciful Father. Not only have confessions increased exponentially, but the quality has improved too. Nowadays, many people enter the confessional holding a copy of the Gospels, having adopted his suggestion to read at least one passage every day. And so they confess themselves based on what they read. This fills me with a great joy. It is a true miracle worked by this man, Francis, sent to us by God. I can see that, thanks to God, people do not feel more sinful (I think that there are already too many people oppressed and humiliated by their sins), they now feel that their Father is more merciful. I wish to add that I see rather clearly, if I may say so, that when a person feels welcomed, respected, encouraged, then he or she can better understand his or her sins and ask for forgiveness. Indeed, he or she can understand that his or her sin, in a certain sense, has already been forgiven, that he or she is inside the confessional to accept the forgiveness that has already been granted, because God is love, in the brief, yet sublime, words of John the Evangelist. This is also why I believe that to speak of a crisis of the sacrament of confession is a contradiction in terms; it is the way in which the priestly ministry is practised, if anything, that is undergoing a crisis. Because this priesthood is confined to the sacristies, rather than lived out in the streets, it is a priesthood that prefers the smell of incense, and money, rather than that of the flock of sheep. Therefore, I see it as a “blessing crisis”. My experience has taught me that men and women come to confession in equal numbers. But two things do strike me, although I find them hardly surprising. The first is that the confessions of those who appear closest to the Church, who ways attend, are more predictable, matter-of-fact, and soulless; sometimes they even expect a good punishment rather than forgiveness. They are also those who don’t very much like Pope Francis, precisely because, they say, he’s «a communist, a pauperist, too predictable», plus other nonsense disseminated by the 21st century crusaders and by some very godless and hardly devout atheists.
I would like to give you an example: I have been a priest for sixteen years and I still have to struggle enormously to explain to catechists (who are otherwise saintly persons) that teaching children «Dear God, I repent and regret my sins, because by sinning I have deserved your punishment» is not the best thing. This should at least be better explained and replaced with other biblical acts of contrition. I also wish to mention those who find it absolutely necessary to confess themselves on a given day, otherwise they feel they have broken their devotional service and have to start all over again? Is this not an obsession rather than devotion?
The other thing that strikes me are the confessions of the members of certain ecclesial movements, and of one in particular, which is also quite widespread. These confessions all seem to be the same, as if part of a stock repertoire, totally lacking the sense of thanksgiving for the good there is out there. To these I always say: «Excuse me, but something nice and good must have happened to you since you last confessed, or is everything just sin?».
I would like to conclude by saying that I find it disheartening to see confession hours put up in churches. As much as I understand the need for planning and organisation, but the church is not a post office. My experience has taught me (I work as a parish priest in the centre of Rome) that priests should be available primarily at lunchtime and in the evenings, after the evening Mass, to meet the needs of working people. Of course, this can only be done if we keep our church doors wide open, like God’s heart, who we call upon as «Our Father, who is in heaven», not «Our Judge and Master, who lives in the confessionals».