"C'è un solo modo di vedere le cose finché qualcuno non ci mostra come guardare con altri occhi" – "There is only one way to see things, until someone shows us how to look at them with different eyes" (Picasso) – "人观察事物的方式只有一种,除非有人让我们学会怎样以不同的眼光看世界" (毕加索)
A coloro che mi hanno voluto bene e continueranno a pregare per me. Mi hanno molto colpito queste parole di papa Francesco scritte come conclusione del Suo breve testamento.
In questi giorni di dolore e di attesa mi domando chi gli ha voluto bene veramente.
Forse quei prelati, leaders delle varie associazioni ecclesiali, giornalisti, che stanno affollando i salotti televisivi, che fanno a gara cercando nuovi posizionamenti, e con rapide e ridicole prese di distanza da parole e gesti, vorrebbero tirare la volata ad un loro candidato al soglio di Pietro? Non direi proprio.
Forse gli hanno voluto bene i cosiddetti “amici” che lo hanno circondato per ottenere qualcosa per sé e per la loro cricca, denari, nomine, visibilità? Non direi proprio.
Forse alcune autorità della politica e della economia che di giorno si inchinavano e la sera lo sbeffeggiavano? Non direi proprio.
Il voler bene è una cosa per persone serie. Non possiamo dimenticare che l’annuncio Pasquale è ancorato al volersi bene tra Pietro e Gesù e che il Primato dell’Amore conferito a Pietro avviene “quando ebbero mangiato”, dunque una conseguenza dell’Eucarestia che così diventa anche la sorgente del ministero di Pietro: “Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli” (Gv 21,15-16). Il Papa ha la responsabilità dell’amore senza confini fino al dono di sé nel servizio fino alla fine, e così papa Francesco ha testimoniato fino all’ultima ora.
Sappiamo che dopo Pasqua Pietro e gli apostoli furono frustati. Oggi il potere anche quello religioso non usa le fruste, ha mezzi più efficaci e percuote anche il papa attraverso quelli che non accettano di cambiare il loro stile di vita i loro privilegi e il loro lobbismo, fondamentalmente perché non gli hanno voluto bene.
Chi gli ha voluto bene? Chi gli ha voluto bene veramente, sapendo quindi accettare i limiti personali, gli errori, le idee diverse che fanno parte della natura umana? Un popolo intero gli ha voluto bene.
Un popolo che ha riempito piazza San Pietro e le piazze di tutto il mondo; un popolo che è sceso nelle strade di Roma per dargli l’ultimo saluto.
Gli ha voluto bene Maurizio che quando fu pubblicata Amoris Laetitia mi disse piangendo:” allora anche per me che sono divorziato c’è una speranza, anche io posso ricominciare”. Ne ho conosciuti moltissime di persone come Maurizio; non avevano pretese, ma desiderio di camminare nella fede.
Gli ha voluto bene la signora Rosa che nella sua vecchiaia di solitudine mi raccontò quando sentiva il papa parlare degli anziani:” non mi sento più sola e da buttare come una scarpa vecchia”
Gli ha voluto bene anche Angela una adolescente che un giorno a catechismo mentre gli parlavo di Evangeli Gaudium disse così:” che belle queste parole, mi danno serenità e gioia”.
Gli ha voluto bene la Madonna che ora veglia su di lui nell’attesa della resurrezione.
Grazie di cuore papa Francesco. Anche io voglio bene al papa (Primo Mazzolari 1942)
“All’inizio del nuovo anno, tempo di grazia che il Signore dona a ciascuno di noi, vorrei rivolgermi al Popolo di Dio, alle nazioni, ai Capi di Stato e di Governo, ai Rappresentanti delle diverse religioni e della società civile, a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo per porgere i miei auguri di pace ”.Papa Francesco desidera ricordare nel suo Messaggio per la pace di questo anno, intitolato Intelligenza artificiale e pace, che tutti siamo responsabili nella costruzione della pace, e desidera anche rinnovare gli sforzi di tutte le religioni e degli uomini di buona volontà per costruire un mondo pacificato. Quando noi riflettiamo sulla Pace,dobbiamo liberarci da una pre comprensione che ne fa quasi un fatto irrealizzabile e credere invece come essa sia non solo possibile ma anche una vocazione per ogni uomo. Gesù poi sulla Croce, ci ricorda San Paolo, ha distrutto in sé l’inimicizia, ha distrutto le barriere che separano gli uomini. Gesù non è solo un annunciatore di pace, come ce ne sono stati molti nella storia; Lui ha realizzato in sé le condizioni vere per la pace. Anche le religioni spesso sono rimaste alla pace come annuncio, ma alla prova dei fatti non sembra che siano riuscite a creare un mondo pacificato. L’annuncio del vangelo della pace non basta, bisogna distruggere le inimicizie, i muri, i pregiudizi, proprio come ha fatto Gesù.Ricorda spesso Papa Francesco:”solo la pace è santa, non la guerra”. Anche le parole che diciamo con tanta facilità – «siamo tutti fratelli» – sono parole molto impegnative e non possiamo più dirle se non cominciamo da noi stessi a distruggere, le pareti di separazione che ci separano dagli altri. Non separazione ma comunione, a partire dalla preghiera. Questo è possibile farlo sempre, ad ogni livello, in ogni casa, in ogni ufficio, in ogni momento della giornata. La pace è prima di tutto un dono di Dio, per ogni uomo e per ogni religione. La legittima paura di perdere ognuno la propria identità è una cosa pericolosa perché rischia di far perdere di vista una cosa ancora più grande, che è la vita stessa, dove lo Spirito soffia quando e dove vuole ; chi vuole ingabbiare lo Spirito con “una legge fatta di prescrizioni e di decreti”(Ef 2,15) si illude e non può cogliere l’attualità dello Spirito. La pace non si costruisce per legge e decreti, e non si costruisce neanche con la paura di perdere qualche cosa, ma studiando amando e servendo il mondo,come diceva Paolo VI, disposti anche a sacrificare non la propria identità ma se necessario alcune tradizioni fino a quando “Dio sarà tutto in tutti”.(I Cor 15,28)
L’Avvento non è una prima di tutto una preparazione al Natale, ma una contemplazione della seconda venuta di Gesù alla fine dei tempi. Noi viviamo i nostri giorni tra due avvenimenti; un fatto già avvenuto, la nascita, e un altro atteso, il suo ritorno alla fine della storia. Noi anche celebriamo l’eucarestia, “nell’Attesa della Sua venuta”.
L’Avvento si estende per quattro settimane nel quale il colore liturgico è il viola, riservato ai tempi di attesa (Avvento e Quaresima) e di dolore (morte). Si distingue la terza domenica, detta domenica Gaudete/Rallegratevi, dalla prima parola dell’antifona d’ingresso, in cui nel medioevo si interrompeva il digiuno di Avvento, simile a quello di Quaresima per l’ormai prossimo Natale. Durante il periodo di Avvento non si canta il Gloria,che esprimerà la gioia degli angeli e di tutta la creazione nella notte di Natale, mentre rimane il canto dell’Alleluia, come espressione del già e non ancoradel tempo in cui viviamo.
Nel 490 il vescovo di Tours ordinò che il periodo prima di Natale diventasse un tempo penitenziale nella Chiesa Franca dell’Europa Occidentale, e ordinò un digiuno di tre giorni ogni settimana a partire dall’11 novembre, festa di S. Martino di Tours protettore della sua città. Tra la festa di San Martino e il Natale ci sono 40 giorni. Questo numero di giorni ricordava il tempo dei 40 giorni della Quaresima, come anche i 40 giorni e le 40 notti di Mosè sul monte Sinai (Es 24,18; 34,28). Ecco perché il tempo di Avvento fu anche denominato Quadragesima Sancti Martini o anche Quaresima e digiuno di 40 giorni di San Martino. Come la Pasqua era preceduta dalla Quaresima di penitenza, così anche il Natale era preceduto dalla Quaresima di San Martino. Si viveva la gioia della venuta del Messia con una attenzione penitenziale.
Un secolo dopo (sec. VI) anche nella Chiesa di Roma viene introdotto il Tempo di Avvento, con un tono prevalentemente gioioso sviluppando di più l’aspetto di preparazione al Natale. Nel sec. XIII, alla fine del Medio Evo, i due aspetti della liturgia gallicana e romana trovarono una sintesi tra aspetto penitenziale e festoso. Ancora oggi fondamentalmente si mantiene questo equilibrio grazie alla riforma liturgica voluta dal concilio Vaticano II e da Paolo VI.
Il nostro compito di cristiani del ventunesimo secolo è quello di tenere alta e luminosa la fede nel Dio di Gesù Cristo, tra poco bambino, crocifisso e risorto. Dobbiamo anche mantenere , e non è un compito secondario, la fede in un mondo di giustizia e di pace di cui nel tempo di Avvento ci parleranno i profeti. Noi crediamo che sia necessario, l’amore, il volersi bene nella città, cioè nelle nostre metropolitane, nei nostri palazzi, nei nostri luoghi di lavoro; crediamo che sia non solo importante, ma necessario.
Non basta più che nel mondo ci siano le anime buone che si dedicano alle opere buone. Ogni potere ha sempre avuto bisogno di qualche anima buona. Nella logica del potere qualcuno che si dedica alla giustizia è un ottimo paravento, per fare più comodamente i propri affari!
Ascolteremo in questo tempo di Avvento, il grido di Giovanni Battista : «Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri. Ogni burrone sarà riempito, ogni monte abbassato; le vie tortuose diventeranno diritte e quelle impervie, spianate». La voce ci parla di un mondo duro e difficile, violento in tanti giorni della storia. Le montagne insuperabili oggi sono quei muri che tagliano in due le città, le nazioni, le speranze di tanta povera gente. I burroni scoscesi sono la disperazione di molti che attendevano carità e hanno trovato leggi disumane e spietate. Il profeta però vede oltre, vede strade che corrono diritte e piane, burroni colmati, monti spianati. Il profeta vede le speranze mai sconfitte degli uomini. Vede soprattutto il sole che sorge sulle notti di tante persone e di tanti popoli.
Il profeta garantisce: «Ogni uomo vedrà la salvezza». Dio viene e non si fermerà davanti ai burroni o alle montagne, e neanche ai cuori di pietra. Perché :” un bambino è nato per noi; ci è stato dato un figlio”.(Is 9,5)
Domani nella domenica che precede la Festa di Gesù Cristo Re dell’universo, si celebra la 7à edizione della Giornata Mondiale dei Poveri voluta da papa Francesco nel 2017.
Nel Messaggio per questo anno il Santo Padre ci invita a:”non distogliere lo sguardo dal povero”(Tb4,7), commentando la storia drammatica e magnifica di Tobia. Nel testo della lettera si fa anche riferimento alla profezia della Pace in Terris di Giovanni XXIII e alla tenacia di Santa Teresina, proprio nel sessantesimo anniversario della storica enciclica e nel 150° anniversario della morte della grande testimone missionaria.
Sappiamo anche che il mandato di Gesù riguardo ai poveri è molto preciso.
Nella Sinagoga Gesù prese il il rotolo del profeta Isaia e – come dice il testo greco trovò quel passo dopo averlo cercato. Il verbo greco infatti è eurisko – da cui viene la ben nota esclamazione eureka! Gesù cioè sceglie un passo che probabilmente non era previsto si leggesse e che invece Lui cerca e trova apposta per leggerlo in quel momento.
Si tratta del capitolo 61 del profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore”.
Qual è questo “vangelo” di cui ci parla Isaia a cui fa eco Gesù? Il “vangelo” che si attendono i poveri – i primi a cui ancora una volta questo lieto annuncio è rivolto – è la fine della povertà. I prigionieri attendono la libertà, i ciechi si aspettano di poter vedere, e gli oppressi di essere sollevati dai loro pesi.
Nel mondo siamo testimoni, spesso piuttosto spettatori volenti o inermi, di tante forme di povertà (materiale, morale, spirituale), ingiustizie, prevaricazioni, disabilità, vulnerabilità…. Anche noi, nelle nostre vite, abbiamo le nostre povertà, siamo prigionieri di tante cose e siamo oppressi in qualche parte del nostro cuore. Ma, ci ha preannunciato Isaia e ci ha ricordato il Signore Gesù: “Coraggio, non temere, Egli viene a salvarti”(Is 35,4). E ancora ci dirà : “La verità vi farà liberi”(Gv 8,32). Quella salvezza, quella verità è proprio il Signore Gesù, che è il compimento della Scrittura, cioè il compimento del “lieto annuncio”.
E’ importante allora per tutti noi avere la coscienza, avere la certezza che c’è un punto, un “stella polare” dove guardare; che camminiamo su un sentiero già tracciato e – come ci ricorda Isaia – “spianato” dal Signore, nel deserto, che sono a volte le nostre vite, le nostre società. Dobbiamo tenere lo sguardo fisso su di Lui e seguirlo, lasciandoci guidare dallo Spirito, certi che così non smarriremo la via. Molte volte noi cerchiamo ma non troviamo (la soluzione di quel tale problema, la risposta ad una certa domanda, il coraggio di fare una scelta…) proprio perchè prima che affidarci allo Spirito e distogliendo lo sguardo da Gesù, contiamo solo sulle nostre forze, pianifichiamo solo in base ai nostri calcoli, guardiamo solo alle nostre priorità. E non capiamo che dobbiamo “rovesciare” il nostro modo di pensare, vedere e fare le cose: perché prima di tutto siamo noi ad essere già stati trovati e soprattutto amati e “salvati”.
Scrive ancora l’evangelista Luca:” Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti, erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”.
Noi dobbiamo certamente essere informati, preparati, leggere, pregare e meditare la Parola di Dio, ma subito dopo abbiamo il dovere di chiudere il “libro”, “arrotolarlo” come ha fatto Gesù, per metterci al servizio di quelli che aspettano la liberazione e che hanno gli occhi fissi su di noi e si attendono da noi una parola di conforto, una presa di posizione, un gesto di speranza, forse anche di rottura. Ricordiamoci sempre di cosa ha detto il Signore: “beati coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica”. Oggi sono milioni i bambini, le donne, i popoli interi che attendono e che ci guardano. E ragionando più “in piccolo”, ci sono tanti che si aspettano una risposta da noi nelle nostre vite – i nostri vicini, i colleghi, i familiari, i poveri che sono nelle strade delle nostre città. Da troppo tempo il nostro occidente, le nostre case, a volte anche le nostre chiese assomigliano alla comunità di Esdra descritta nella Bibbia, chiusa nella propria autosufficienza e dimentica dei bisogni dei poveri. In tanti attendono la liberazione e tengono gli occhi fissi su di noi.
Il nostro compito di cristiani è prima di tutto contribuire alla costruzione di una società liberata, noi prima di tutto siamo battezzati nello Spirito che libera gli oppressi e dobbiamo sentire forte l’urgenza di questo compito, di questa missione, la liberazione dei poveri, degli oppressi e degli emarginati.
Papa Francesco ha celebrato, venerdì 27 ottobre, una Giornata di digiuno, di preghiera e di penitenza per la pace nel mondo. “Tacciano le armi! Si ascolti il grido di pace dei popoli, della gente, dei bambini! Fratelli e sorelle – ha detto il papa – la guerra non risolve alcun problema, semina solo morte e distruzione, aumenta l’odio e moltiplica la vendetta. La guerra cancella il futuro. Esorto i credenti a prendere in questo conflitto una sola parte: quella della pace; ma non a parole, con la preghiera, con la dedizione totale”. Il Pontefice ha presieduto un momento di preghiera in San Pietro, e ha chiesto a tutte le Chiese di partecipare, con iniziative che coinvolgessero il Popolo di Dio; numerosissime sono state le parrocchie in Italia e nel mondo che hanno accompagnato il papa e la Chiesa in questo momento di raccoglimento e preghiera.
Siamo in un’ora di buio ha detto Francesco.
Il mondo oggi sembra un immenso calvario. Il Calvario è, quel luogo in cui si crocifiggono i giusti. Nel mondo ce ne sono tantissimi di calvari! È lì che dobbiamo entrare per migliorare il mondo; è lì che si costruisce una piena riconciliazione che abbia come misura gli ultimi.
La pace infatti, come la storia insegna, non verrà mai da nessuna vittoria, ma solo dalla riconciliazione.
Un mondo di giustizia è la condizione previa alla pace; Il nostro è un mondo ingiusto verso tanti uomini e donne e la guerra ne è la conseguenza.
Ogni popolo, ogni nazione, ogni cittadino del mondo ha diritto di difendere la propria libertà e le conquiste della sua civiltà; ma non fa parte del messaggio di Cristo dire che quando uno ha un “regno” se lo deve difendere con la spada. Gesù dice a Pilato: “se il mio regno fosse come il tuo, i miei avrebbero combattuto”. Combattere con la spada non è secondo Cristo. In fatti la nostra storia intera è solcata da fiumi di sangue tutti versati in nome del principio che senza una spada un regno non si regge. La conseguenza è che siamo sempre in guerra.
Dobbiamo chiedere invece con forza alla politica, ai regni di questo mondo cioè, la difesa della dignità e della libertà dell’uomo, di ogni uomo.
Dobbiamo chiedere di fare la pace, ma quella vera però. C’è da temere sia quanto i titolari del potere litigano ma anche quando si danno la mano. Non per nulla Gesù fu crocifisso quando Pilato ed Erode fecero la pace su di Lui, sulle sue spalle.
Preghiamo per una pace non sulle spalle della povera gente. Per esempio una pace che preveda il proseguimento delle spese per mantenere l’equilibrio degli armamenti, e quindi affama mezzo mondo, non la possiamo chiamare pace.
Gesù Re della pace ha patito la violenza del potere.
Quel crocifisso, quel Figlio dell’uomo il Padre lo ha resuscitato, lo ha costituito Signore! dove? Su quale trono? In nessun trono. Il trono di questo Re è la coscienza di quegli uomini che credono alla misericordia, alla pace, al dialogo, all’ecumenismo, alla fraternità universale e per questa fede sono disposti a dare la vita.
Noi non sappiamo come sarà, il futuro; sappiamo però come tutto è cominciato: Dio ha creato il mondo e ha detto che era cosa buona; questo sigillo di bontà resta nonostante tutte le cattiverie di cui l’uomo è capace, nonostante tutte le guerre. Il bene non sarà domani ma ci accompagna fin dall’inizio.
«Ti benedica il Signore e ti protegga. il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace». Questi versetti del Libro dei Numeri accompagnano la preghiera della Chiesa all’inizio di ogni anno civile. Ci è donato, di camminare nel tempo come figli benedetti. E’ il dono della salvezza
Paolo, nella lettera ai Galati, colloca il dono della salvezza nel passaggio dalla condizione di schiavitù nei confronti della legge alla condizione della libertà dei figli. Vivere la libertà dei figli con un realismo al quale viene donato l’essenziale. Gesù ci ha salvato dal superfluo e ci ha donato l’essenziale.
L’essenziale sono gli affetti, e le piccole/grandi cose del vivere quotidiano, proprio come il pane quotidiano che chiediamo nel Padre Nostro.
L’essenziale è la Pace. La Pace di Cristo che ha pagato per tutti noi un prezzo altissimo. Anche noi dobbiamo pagare un prezzo alla Pace; la storia della nostra salvezza si apre con la strage degli Innocenti e si chiude con il Calvario, non dimentichiamolo.
L’uomo di pace non rinuncia a difendere la giustizia, né confonde il bene col male prendendo una attitudine rassegnata o neutrale. L’uomo di pace è una “pecora” che non intende farsi “lupo” come ricordava don Primo Mazzolari. Ci vuole un grande atto di fede per sorreggere la pace.
Ecco alla fine la cosa veramente essenziale, la Fede; la pace non si può fare senza la fede. Per questa fede, preghiamo, operiamo il bene, e alziamo lo sguardo riconoscendo la dignità dell’uomo immagine e somiglianza di Dio.
Si è aperto stamattina il Sinodo sulla sinodalità con una Messa solenne in San Pietro presieduta da Papa Francesco, idealmente affidandolo al Santo di Assisi, nel giorno della sua festa liturgica. “Lasciamo che lo Spirito Santo sia il protagonista del Sinodo” – ha detto il Pontefice nell’omelia, invitandoci a essere “una Chiesa ospitale, non con le porte chiuse”, seguendo “lo sguardo accogliente di Gesù”.
Papa Francesco ha voluto fortemente questo sinodo, che continuerà in una seconda parte nel 2024. Potremmo dire che si tratta di un “sinodo nel sinodo”, perché riflette proprio sulla natura stessa della Chiesa, sul suo essere – potremmo dire costitutivamente – sinodale – cioè chiamata ad annunciare e a testimoniare il Vangelo, “camminando insieme” (questo il significato del termine sinodo). Camminare insieme al Popolo di Dio, ma anche al mondo, e a tutti gli uomini di buona volontà.
Il Papa stesso, rispondendo attraverso il Dicastero per la Dottrina della Fede a cinque “Dubia” sollevati da alcuni cardinali nei giorni scorsi, ha affermato che la sinodalità “come stile e dinamismo, è una dimensione essenziale della vita della Chiesa”. La Chiesa è “mistero di comunione missionaria”, che “implica necessariamente una partecipazione reale: non solo la gerarchia, ma tutto il Popolo di Dio in modi diversi e a diversi livelli può far sentire la sua propria voce e sentirsi parte del cammino della Chiesa”.
Crescere come Chiesa sinodale è la strada maestra che il Papa ha indicato. L’esperienza stessa ci suggerisce di non dare mai per scontato che la Chiesa sappia sempre camminare insieme come Popolo di Dio radunato dal Signore; ancora oggi troppi sono gli esclusi, e non pochi quelli che non hanno voce. Anche in questo caso, potremmo dire, si tratta di un “cammino nel cammino”, spesso in salita, ma d’altra parte Gesù stesso ci ha dato testimonianza di questo, camminando con fatica e determinazione sulla strada verso Gerusalemme. Camminare alla sequela di Gesù, camminare insieme, spesso significa anche camminare con la croce.
L’Instrumentum laboris è il documento di riferimento per seguire i lavori del Sinodo. Diviso in due grandi aree, è il risultato di tutto il materiale raccolto nei cammini diocesani e continentali ed esprime quindi l’universalità della Chiesa. Una Chiesa – come spiega il documento – che intende affrontare in questa assise tematiche molto concrete come il dramma della guerra, i cambiamenti climatici, il ruolo di una economia che spesso uccide, il dramma degli abusi sessuali, il ruolo donne nella Chiesa – solo per citarne alcuni.
Anche per questo nell’Instrumentum Laboris sono presenti quindici schede di lavoro che vogliono aiutare a riflettere su una concezione meno statica del concetto stesso di sinodalità, secondo la visione che il Papa ha più volte condiviso: nella Chiesa siamo chiamati più che ad occupare spazi, a generare processi. Con questo, di nuovo, il Papa ci dice: i protagonisti non siamo noi, non siamo “servi” indispensabili, ma siamo strumenti di qualcosa di più grande.
La prima parte dell’Instrumentum Laboris mette in luce il cammino fatto dalla Chiesa nei due anni preparatori. La seconda parte – che si chiama Comunione, missione, partecipazione – mette in luce le tre questioni fondamentali, oggetto del sinodo: accogliere tutti, nessuno escluso; riconoscere e valorizzare il contributo di ogni battezzato in una Chiesa sempre più missionaria; e riflettere sul rapporto tra partecipazione e autorità in una Chiesa sinodale. A nessuno sfugge l’importanza e la delicatezza di tali questioni.
È importante anche notare come nel documento preparatorio si faccia molta attenzione all’uso di un linguaggio inclusivo, perché non solo quello che diciamo, ma anche come lo diciamo ha una grande importanza e può fare la differenza. La Chiesa è un Noi, che non deriva dalla sommatoria di tanti io, ma dall’armonia che crea lo Spirito, un poliedro – come ricorda spesso il Santo Padre – dalle molte facce in un unico corpo.
Tornando al tema del linguaggio, in questo sinodo – come più volte ha sottolineato Papa Francesco – sarà fondamentale ascoltare e imparare – nella Chiesa, a tutti i livelli –a farlo. Una Chiesa sinodale è una “Chiesa dell’ascolto”, che “desidera essere umile, e sa di dover chiedere perdono e di avere molto da imparare”.
Dall’ascolto nasce e rinasce una “Chiesa dell’incontro e del dialogo” con la realtà, nello spirito che già il Concilio Vaticano II aveva sottolineato, in particolare nella Gaudium et Spes e che San Paolo VI – il papa che ha creato il Sinodo – ha voluto codificare nella troppo spesso dimenticata enciclica Ecclesiam Suam, che Papa Francesco ha invece oggi citato.
Camminiamo anche noi, nella preghiera, nell’ascolto e nella riflessione, in questo importante evento ecclesiale che è il Sinodo, confidando nell’ispirazione dello Spirito Santo e affidandolo a San Francesco di Assisi, che ha saputo indicarci la via proprio a partire dalla sua fragilità personale e da quella della Chiesa. Una fragilità non subita ma offerta al Signor, che guida la sua Chiesa in ogni momento della sua storia.
Il Cenacolo che aveva visto gli Apostoli testimoni della Cena del Signore, il luogo dove tante volte si erano trovati insieme per ascoltare la Sua Parola, diventa ora un rifugio, un nascondiglio “per paura dei Giudei” – come ricorda l’Evangelista Giovanni. E ci dicono anche gli Atti: “Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo”(At 2,1).
Bisogna ricordare che gli Apostoli a Gerusalemme avevano pochi amici, si erano messi contro il potere religioso e quello politico, erano considerati dai più fanatici seguaci di una delle tante sette messianiche del tempo. Rischiavano la vita per il solo predicare che Gesù era il Figlio di Dio veramente morto e veramente risorto. E infatti gli Atti ci raccontano che ben presto arriva il primo martire: Stefano, che viene lapidato a morte.
Oggi quali sono le nostre paure, che ci fanno rinchiudere nei nostri gruppi? Se escludiamo la Chiesa dei martiri che come ben sappiamo esiste e resiste ancora oggi in tante parti del mondo, notiamo che anche nella Chiesa e tra i cristiani è forte la tentazione di rinchiudersi in un’esperienza di fede elitaria, spesso anche settaria, che esclude il mondo, visto come cattivo, nemico e di cui quindi si ha paura e che si tende a giudicare anziché amare. Può succedere che a volte la nostra fede, la nostra comunità cristiana, il nostro gruppo ecclesiale, invece che essere spazio di fraternità e di annuncio del Vangelo, si trasformi in un fortino inespugnabile, dove quelli di dentro giudicano quelli di fuori e li escludono anche. “Chiesa in uscita” secondo l’insegnamento di Papa Francesco significa anche non aver paura e non giudicare, ma al contrario essere forti nella fede e allargare gli spazi dell’accoglienza.
E’ in questo clima di paura e di chiusura che irrompe lo Spirito. “Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano” (At 2,1). In quel cenacolo diventato chiuso e impaurito, lo Spirito interviene, agisce e lo trasforma, cambia il cuore di quegli uomini sfiduciati e ricrea una nuova fraternità allargata fino ai confini della terra. Ecco perché ognuno sentiva parlare nella propria lingua nativa, ci ricordano sempre gli Atti.
Ancora oggi lo Spirito ci chiama a guardare in avanti, ad aprire gli spazi del nostro cuore, a porci in ascolto della Parola. Il Vangelo non è uno scritto da ricopiare, la Chiesa non è un museo da custodire. La comunità cristiana delle origini ha avuto il coraggio dello Spirito di accogliere nel suo seno i non-circoncisi, ha osato mettere per iscritto la Buona Notizia, ed è stata pellegrina fino ai confini del mondo conosciuto. Oggi sta’ a noi trasmettere allo stesso modo “il Vangelo che abbiamo ricevuto”, senza paura, vergogna, e ovunque andiamo in questo mondo globalizzato. “Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26).
Non è una cosa semplice testimoniare la Chiesa della Pentecoste, perché è la Chiesa della gioia (come ci ricordava San Paolo VI) ma anche del martirio. Nessuno si illuda di non dover pagare un prezzo, anche personale. Al contrario, vivere il Vangelo delle sacre abitudini, rinchiusi nelle sagrestie, nascosti dietro i fumi di incenso è indubbiamente più facile. Lo Spirito ci chiama invece a rischiare i sentieri della vita, a percorrere la Via (ódos), proprio come il Vangelo viene chiamato negli Atti degli Apostoli. La lingua più difficile da parlare sarà quella di chi incontriamo, di chi ci sta di fronte, di chi sarà contro di noi, magari credendo far bene. Lo Spirito ci insegna a parlare anche quella.
Un tema centrale della spiritualità cristiana è senza dubbio l’«ospitalità». E’ un tema sacro per tutte le religioni e per tutte le culture. Nel NT in Eb 13,2 leggiamo: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli». La civiltà post moderna in particolare in occidente ha perso il senso sacro dell’ospitalità perché ha reso economico ogni aspetto della nostra vita, compreso i rapporti tra le persone, basando tutto sulle regole del mercato e del profitto; le regole però non sono frutto di una condivisione, ma sono decise da chi parla di libero mercato, ma in realtà è padrone assoluto del mercato. Aggiungiamo poi una corruzione sistematica ed ecco allora sacche privilegi che usano il mercato per gli interessi di pochi a scapito dei molti. In questo contesto, l’ospite è diventato un semplice turista, su cui soltanto guadagnare.Nel vangelo Gesù entra in un villaggio nella casa di amici e ci da il senso profondo della ospitalità. “Entrò in un villaggio”. Il “villaggio” è il luogo attaccato alla tradizione, al passato. Il villaggio era quello che“l’accampamento”rappresentava nell’Antico Testamento, luogo dove le appartenenze sono divenute schlerotizzate e privilegiate, in cui ogni novità è vista con sospetto, ogni forestiero è già nemico.
Una donna, di nome Marta ospitò Gesù nella sua casa, racconta l’evangelista Luca. “Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola”. Maria si mette nella posizione del discepolo verso il maestro. Come San Paolo che racconta negli Atti di essere stato istruito ai piedi di Gamaliele. Maria quindi riconosce Gesù come Maestro. Maria, però non potrebbe fare questo. E’ una donna e le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini. Leggiamo ad esempio nel Talmud che “le parole della legge vengono distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne”. Maria qui sta compiendo qualcosa di clamoroso. Trasgredisce una delle leggi fondamentali insegnate dalla Tradizione.
“Tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta”. Cosa non può essere tolto ad una persona? Pensiamo che purtroppo a volte può essere tolta persino la vita ad una persona. Perché Gesù dice che Maria ha scelto una cosa migliore che non può esserle tolta? La risposta è che Maria ha scelto la libertà, attraverso la disobbedienza alla legge. Ecco un altro tema fondamentale, la libertà. Il sovrano può concedere la libertà, ma può anche toglierla in qualunque momento. Questo vale per le persone e come ci insegna la storia vale anche per popoli interi. Quando però la libertà è frutto di una conquista personale, frutto del coraggio di trasgredire regole della tradizione e della religione, che umiliano come in questo caso la dignità della donna, allora quando uno conquista questa libertà nessuno gliela può togliere. Gesù ci chiama a questa libertà; non ci chiama a scegliere una vita contemplativa o una più attiva, perchè la vita è una sola. Gesù ci chiama a fare la scelta della libertà, in particolare la libertà di ascoltare la Sua Parola, e di metterla in pratica in una concreta e solidale apertura agli altri, specialmente verso chi bussa alle nostre porte, scappando dalla guerra e dalla fame. Ospitalità e Libertà sono cose sacre, nessuna religione o istituzione può interferire con esse, perché si metterebbero contro Dio e contro l’uomo.
Come ogni anno, a gennaio (18-25), le varie chiese che si riferiscono a Gesù Cristo, tentano di dialogare per conoscere meglio il cammino da percorrere per ritrovarsi fratelli nel confessare la fede che nei vari secoli passati si è pensato bene di rompere, sia per motivi dottrinali, sia per fattori storici. Con conseguenze drammatiche che hanno influito sulla divisione di intere nazioni, specie in Europa.
Tutti dovrebbero leggere, almeno tra i cattolici, il documento del Concilio Vaticano II scritto proprio sul tema della comunione nella fede tra le diverse famiglie sorte dagli scismi. Dubito molto che tra che le nuove generazioni, sia pure interessate, tale documento “Unitatis Redintegratio”, sia mai stato preso in considerazione. Sarebbe tempo di farlo ora!
Per conoscersi, sarebbe utile leggere gli scritti dei Padri delle Chiese Orientali, gli Ortodossi: che cosa ci divide da questi Padri, carichi di santità, di sapienza biblica, grandi apostoli dei popoli dell’ 0riente ? E gli scritti di Lutero e dei Riformatori ? Dov’è oggi la difficoltà a leggere le Scritture, a interpretarle assieme, a leggere i doni dei Sacramenti? Cosa significa difendere la dottrina che è rimasta astratta, aliena dalla ricchezza della fede popolare?
“Credere” non vuol dire forse confessare Gesù Cristo, che Gesù nella risurrezione è il Signore ? Non è forse questo il cuore del nostro Credo? Che cosa mai ci divide? Il riconoscimento dell’autorità del Papa? Non ha forse detto papa Francesco, che l’autorità di Roma sta nella carità? Non era già stato detto da S. Ignazio di Antiochia all’inizio del II secolo? Forse alla radice della disunione rimane una grossa pigrizia spirituale (assenza dello Spirito) che affonda le origini nel potere delle varie Chiese.
Ecumenismo significa semplicemente Gesù Cristo. L’uomo moderno che continua ad abbandonare le Chiese, vuole che Cristo sia la sorgente della speranza umana, che sia una verità che si traduce nella carità e nell’amore ai deboli e agli ultimi. Esige che la fede nella vita eterna sia ora qui manifestata dalla speranza, dalla riscoperta della bellezza della creazione e che l’incarnazione sia annunciata come il fine ultimo di un Dio, che nel su Verbo, compie il senso di tutto il cosmo conosciuto nella scienza e bisognoso di compimento. L’al di là, che noi annunciamo, serve per dare oggi la felicità che Gesù ha descritto con tanta potenza nelle Beatitudini (Mt 5).
Un buon terzo del libro degli Atti degli apostoli ci racconta le vicende della Chiesa di Gerusalemme: una comunità unita, che condivide i beni materiali e la vita spirituale, sotto la guida degli apostoli. Poi arriva il martirio di Stefano e la prima grande persecuzione; e questa bella unità incomincia a disgregarsi. È certamente un trauma, ma anche l’inizio di una fase nuova, di apertura al mondo, come narrano gli Atti al capitolo 11,19-26.
Dopo il martirio di Stefano, Filippo va in Samaria, Saulo sulla via per Damasco riceve il mandato dal Signore, Pietro va tra Lidda, Giaffa e Cesarea.
Ad un certo punto alcuni arrivano ad Antiochia. All’epoca si trovava in Siria, oggi nel sud della Turchia; era una città molto grande, un incrocio importante nelle rotte commerciali e politiche dell’epoca. Qualcuno di coloro che erano stati scacciati da Gerusalemme al tempo della persecuzione decide di annunciare anche lì il Vangelo;
Cosa accade ad Antiochia? mentre alcuni continuano a rivolgersi solo agli ebrei, altri prendono la decisione di annunciare la Parola anche ai greci, cioè ai pagani. È una scelta importante, che apre gli orizzonti della missione; eppure non è stata presa dalla Chiesa ufficiale che stava a Gerusalemme, ma da un gruppo di persone di cui non conosciamo neppure il nome! Non in contrasto né in polemica con la Chiesa madre di Gerusalemme; semplicemente in modo indipendente.
All’origine della comunità di Antiochia, che diventerà il punto di partenza di tutti i viaggi missionari di Paolo, non c’è uno dei grandi nomi della Chiesa nascente. Del resto, non è forse stato così anche per Roma? Quando Pietro e Paolo vi si recano, ci sono già non poche comunità cristiane, fondate non sappiamo da chi. “La nascita della Chiesa di Antiochia, la prima comunità cristiana “mista”, composta cioè di ebrei convertiti e di pagani, non è stata programmata e non va attribuita a protagonisti ufficiali”; non si tratta però di un’iniziativa estemporanea, campata per aria; “la mano del Signore era con loro”: non c’era l’ufficialità da parte di Gerusalemme, ma c’era la presenza del Signore.
La Chiesa madre di Gerusalemme sente parlare dell’accaduto e manda Barnaba ad Antiochia a vedere cosa succede:
Quando questi giunse e vide la grazia di Dio, si rallegrò ed esortava tutti a restare, con cuore risoluto, fedeli al Signore, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede. E una folla considerevole fu aggiunta al Signore (At 11,22-24).
Qui dobbiamo fermarci e imparare. Anzi, contemplare lo stile pastorale di Barnaba. È l’esempio più bello di missionario, di pastore, di guida, di educatore, di maestro. Viene infatti mandato ad una Chiesa che è nata da sé, come abbiamo visto; e per prima cosa non dice: fermi tutti, che sono arrivato io! Ora vi insegno come si fa ad annunciare il Vangelo!
No, Barnaba non è questo tipo di persona. Barnaba non cambia nulla di quello che trova, anzi esorta a perseverare. Perché?“Quando giunse e vide la grazia di Dio, si rallegrò ed esortava tutti a restare fedeli al Signore”. Barnaba arriva in questa comunità diciamo sui generis e per prima cosa riconosce che la grazia di Dio è già all’opera; “la mano del Signore era con loro”, e Barnaba lo nota! Egli vede il bene che c’è già e ne è felice.
Com’è bello incontrare qualcuno che riesce a riconoscere e a gioire per il bene degli altri e soprattutto riconosce che la Grazia è già all’opera! A volte c’è uno di stile di annuncio cristiano insopportabile, dall’alto in basso che pensa di portare lo Spirito che invece sempre ci precede; il nostro compito non è quello di portare lo Spirito ma di aiutare a riconoscerne la presenza.
Ma il racconto degli Atti non si ferma qui; non si accontenta di dirci come Barnaba si comporta; ci spiega anche perché ha reagito così, giunto ad Antiochia. Dice, traducendo alla lettera: “perché era un uomo buono e pieno di Spirito Santo e di fede”. È capace di valorizzare gli altri perché è un uomo buono (non lo fa per opportunismo e neppure per finta); ed è buono perché pieno di Spirito Santo e di fede.
Lo dirà anche Paolo, nella lettera ai Galati: se uno è veramente pieno dello Spirito di Cristo, porta frutti di “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”; (Gal 5,22).
Barnaba poi partì alla volta di Tarso per cercare Saulo: lo trovò e lo condusse ad Antiochia. Rimasero insieme un anno intero in quella Chiesa e istruirono molta gente. Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani (At 11,25-26).
v.26b. Mentre tra di loro si chiamano fratelli, credenti , discepoli (ben 29 volte), santi, santificati salvati (2,47) e “quelli che sono della via”; dagli altri (pagani) vengono denominati «cristiani».
Ciò significa che:
a) il titolo Cristo era ormai praticamente diventato un nome proprio;
b) il legame dei cristiani con Gesù appariva, persino ai pagani, indispensabile; uno era cristiano perché era di Cristo possiamo dire. Questa identificazione purtroppo è una cosa non affatto scontata.
come nasce allora una comunità cristiana? tre sono i fattori determinanti : l’azione di Dio, la collaborazione di una comunità cristiana già costituita e la libera accoglienza delle persone.
Ci sentiamo Chiesa, cristiani in questo modo? Per Grazia o forse per ricompensa di qualche merito?
dono da accogliere o diritto da far valere?
frutto del seno del Padre o prodotto delle nostre alchimie pastorali?
Vocazione, chiamata che ci responsabilizza o privilegio che ci contrappone agli altri?
Considerando poi le cose da parte di chi lo trasmette, emergono alcuni fatti che danno da pensare.
Il soffrire per la fede anziché spegnere le energie, rinvigorisce il dono del Signore
Il dovere di annunciare Gesù non richiede alcun mandato ufficiale esplicito: è insito nel fatto stesso di trovarmi, per la fede e il battesimo, discepolo di Gesù (i primi evangelizzatori di Antiochia sono semplici battezzati: v. 20).
Tutti, anche i cosiddetti lontani, sono per definizione destinatari dell’annuncio cristiano (v. 20) e dunque a tutti bisogna rivolgersi.
Evangelizzare è dire Gesù (v. 20).
È la fraternità che attrae, contagia alla fede, non l’organizzazione.
E’ la capacità di incoraggiare il bene come fa Barnaba, più che il controllo, che ottiene i risultati (v. 24).
Saper coinvolgere le persone giuste al posto e al momento giusto e lavorare insieme sono spesso, di fatto, la strada dello Spirito.